Ready Player One: quando il mondo virtuale diventa più sicuro di quello reale
SOLITUDINEDIPENDENZAIDENTITÀ
7/26/20251 min read


Quando ho letto Ready Player One, mi sono ritrovato spesso a pensare: “in fondo, chi non ha mai desiderato un posto dove sparire?”. Un luogo dove il corpo non pesa, dove il disagio sociale non si vede, dove le paure si azzerano con un click.
Per Wade, il protagonista, quel posto è l’OASIS — un universo virtuale in cui tutto sembra più autentico del mondo reale.
Ma dietro la libertà dell’avatar, c’è una verità comune a molte persone che ho incontrato in terapia: la fatica di abitare il corpo, le relazioni, la vulnerabilità dell’essere visti davvero.
Nel virtuale siamo ciò che scegliamo. Nella vita reale, siamo ciò che non possiamo nascondere.
Wade è brillante, ma isolato. Fa amicizie solo tramite schermo. Si innamora di qualcuno che non ha mai visto. L’OASIS gli dà potere, ma lo protegge anche dalla fatica di costruire legami autentici.
Perché nella realtà ci si espone. Ci si può deludere. Ci si sente goffi, inadeguati, sbagliati.
Eppure, proprio nel corso della storia, Wade capisce che non basta vincere un gioco, se non puoi condividerlo davvero con qualcuno. Che nessun mondo virtuale, per quanto perfetto, può sostituire la concretezza di una relazione viva, con tutte le sue imperfezioni.
Spesso le persone arrivano in terapia per qualcosa che “non funziona fuori”, ma scoprono che dentro hanno costruito una stanza sicura da cui fanno fatica a uscire.
E la domanda, allora, diventa: “quella stanza ti protegge… ma ti permette anche di vivere?”
A volte ci rifugiamo in un mondo alternativo perché quello reale fa male. Ma vivere davvero — con il corpo, con l’altro, con tutto ciò che è fragile — resta l’unico gioco che vale la pena imparare.