Il magico studio fotografico di Hirasaka: identità, mito e fotografie interiori

MEMORIAINTERPRETAZIONEIDENTITÀ

9/19/20252 min read

Leggendo Il magico studio fotografico di Hirasaka di Hiragi mi sono ritrovato immerso in un’atmosfera sospesa, quasi mitica. L’idea di uno studio fotografico in cui è possibile rivedere le persone perdute o momenti significativi del passato non è solo poetica: ricorda molto la funzione dei miti nelle culture.

Nella cultura giapponese, il mito del luogo di passaggio — uno spazio intermedio tra il mondo dei vivi e quello dei morti, o tra passato e presente — è un modo per dare forma all’invisibile, per elaborare eventi difficili attraverso simboli condivisi. È un linguaggio culturale che permette di rinarrare l’esperienza, proprio come accade nei percorsi terapeutici.

Anche nella nostra vita personale accade qualcosa di simile. Le famiglie trasmettono miti, storie, fotografie, ricordi: attraverso questi materiali costruiamo la nostra identità, ci raccontiamo chi siamo e da dove veniamo. Ma a volte quelle storie restano congelate, come vecchie foto dimenticate in un cassetto.

In terapia, uso spesso le fotografie come strumenti narrativi. Non in modo nostalgico, ma per riattivare il racconto.
Ecco alcuni esempi di ciò che può accadere:

  • 📸 Una paziente porta una foto di un pranzo di famiglia in cui è ritratta sorridente accanto ai genitori. A guardarla bene, nota per la prima volta che teneva le mani strette sulle ginocchia, quasi come se volesse scomparire. Da quell’immagine nasce un racconto completamente nuovo: la consapevolezza che quel sorriso era una “divisa” per adattarsi, non un riflesso di spensieratezza.

  • 📸 Un uomo porta una fotografia in bianco e nero del nonno, scattata durante la guerra. Non ne aveva mai parlato davvero. La foto diventa il punto di partenza per esplorare il senso di responsabilità familiare, la trasmissione silenziosa di valori e paure, e la possibilità di riscrivere il proprio modo di viverli.

  • 📸 Una donna porta una foto di un momento felice con una persona cara ormai scomparsa. Guardandola insieme, emerge la possibilità di spostare il focus dalla perdita al lascito: cosa di quella relazione è ancora vivo oggi, cosa si può portare avanti.

Questi momenti funzionano perché, come nello studio fotografico di Hirasaka, la fotografia diventa un “mito personale”: un luogo simbolico in cui passato e presente dialogano, aprendo nuove possibilità di significato.

La cultura giapponese ci offre qui uno spunto prezioso: il mito non è qualcosa di “irreale”, ma una cornice narrativa che aiuta a rielaborare, integrare, trasformare.
E la terapia, in fondo, spesso è proprio questo: costruire insieme nuovi modi per guardare le “immagini interiori” e trovare la propria versione della storia.

Le fotografie non cambiano. Ma noi possiamo cambiare lo sguardo con cui le guardiamo — e da lì, riscrivere chi siamo.