Il colibrì: resistere non basta per vivere

APATIAAGITAZIONESENTIRE

7/2/20251 min read

Leggendo Il colibrì ho pensato spesso a cosa significhi davvero “tenere duro”. Marco Carrera — il protagonista — è uno di quei personaggi che ti entrano dentro piano piano, con la forza silenziosa di chi sopravvive a tutto, ma a un prezzo altissimo.

Marco è un uomo che si definisce per ciò che riesce a reggere. Il soprannome “colibrì” glielo danno perché, come l’uccellino che resta immobile in volo agitando le ali a una velocità folle, lui resta lì, fermo nella vita, mentre dentro si consuma. Va avanti. Tiene tutto insieme. Ma la sua stabilità è una forma di sforzo continuo, quasi invisibile agli altri.

Questa è una dinamica che vedo spesso nel mio lavoro clinico. Persone che apparentemente funzionano — lavorano, accudiscono, sorridono — ma che dentro trattengono lacrime, rabbia, paure, senza mai lasciarle uscire. Come se mollare anche solo un attimo significasse perdere tutto.

Marco accumula traumi: lutti, separazioni, amori irrisolti, dolori taciuti. Ma non chiede mai aiuto. Il suo è un dolore “educato”, trattenuto, silenzioso. Quasi come se sentisse che il suo ruolo sia non cedere mai, per non deludere nessuno. Anche se, alla fine, questo lo allontana da sé stesso.

Ecco, Il colibrì ci ricorda che resistere non è sempre vivere. Che trattenere tutto dentro può diventare una forma di autodifesa che ci logora piano. E che il vero coraggio, a volte, non è restare fermi, ma permettersi di cadere. Di sentire. Di chiedere.

Se anche tu ti riconosci in questa fatica silenziosa, nel bisogno di “reggere” tutto da solo, sappi che non sei solo. Parlare con uno psicologo non è segno di debolezza, ma un atto di fiducia verso sé stessi. Un modo per tornare a respirare senza dover agitare le ali tutto il tempo.